I dialetti della Psicoterapia fra ideologia ed etica

di Stefania Magnoni
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
In questo particolare momento storico, in cui il mondo sembra diventato globalmente più fragile, in pericolo, sofferente, unito da un unico grande rischio di annientamento, parlare …

 

In questo particolare momento storico, in cui il mondo sembra diventato globalmente più fragile, in pericolo, sofferente, unito da un unico grande rischio di annientamento, parlare di “dialetti” può risultare quanto mai fuori tempo. Ma forse così non è. Siamo qua oggi per confrontarci su temi importanti per il nostro lavoro di psicoterapeuti, possiamo insieme verificare che i particolarismi, favorendo una chiusura, in realtà non ci proteggono e irrobustiscono, bensì, con il loro significato difensivo, indeboliscono e mortificano la nostra capacità di pensiero e la nostra creatività.

Il mio contributo a questa giornata vuole essere uno stimolo per tutti noi alla riflessione e ad un’autocritica giocata in senso propositivo.

E allora una prima riflessione prende spunto dal nostro codice deontologico. Mi colpisce quanto recita l’ articolo 36:

“Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro formazione, alle loro competenze e ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale. Costituisce aggravante il fatto che tali giudizi negativi siano volti a sottrarre clientela ai colleghi. Qualora si ravvisi casi di scorretta condotta professionale che possano tradursi in danno per gli utenti o per il decoro della professione, lo psicologo è tenuto a dare tempestiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine competente.”

Come mai la comunità degli psicologi ha sentito la necessità di vincolarsi attraverso una norma specifica ad un comportamento che già appartiene ad un più ampio codice comportamentale a cui ciascuno di noi dovrebbe sentirsi impegnato in quanto membro di un gruppo sociale?

Forse è un modo per renderci attenti alle molteplici dinamiche che proprio il nostro lavoro ci insegna a decodificare, ma che spesso abbiamo meno difficoltà ad indicare negli altri, singoli o gruppi che siano, piuttosto che in noi. Forse esprime lucidamente che la “buona natura” di rousseauiana memoria ha parecchie occasioni di inquinamento, corre cioè molti rischi, naviga in acque infide e quindi ha bisogno di un’adeguata strumentazione per non incagliarsi e naufragare pericolosamente.

Occupandoci di uno degli ambiti specifici di competenza dello psicoterapeuta, la cura attraverso le parole, ci ritroviamo in un mondo variegato e molteplice in cui i modelli, i presupposti teorici, gli obiettivi, i progetti terapeutici e anche il senso stesso del curare, l’oggetto della cura, differenziandosi e spesso contrapponendosi, si dipanano in un largo orizzonte che davvero crea incertezze e confusione. Il disorientamento può attivare reattivamente un bisogno forte di definizione. Purtroppo proprio in questo bisogno, nella misura in cui si radichi prioritariamente non sulla necessità di muoversi agilmente nel territorio che ciascuno di noi, durante la sua formazione, ha sentito come più consono al proprio modo di essere e di funzionare, ma su paure arcaiche connesse alla definizione della propria identità e al rischio dell’annientamento, si insinuano rischi di chiusure dogmatiche foriere di guerre ideologiche.

“Quando si sente un solo linguaggio si ascolta un dogma” sono parole di Malcom Pines che in un interessante lavoro sul rispecchiamento sottolinea quanto, nella formazione individuale sia essenziale appunto avere la possibilità di “vedere attraverso gli altri, ma anche di essere visti da loro per poter sopravvivere e prosperare”

Penso che queste considerazioni valgano altrettanto se parliamo di gruppi o di scuole di pensiero che, nella misura in cui riconoscono di avere un comune oggetto di studio, dovrebbero riuscire a valorizzare come elemento propulsivo il mantenimento, o meglio la costruzione di uno spazio condiviso di circolazione comune.

Mi pare interessante come indice dell’ubiquitarietà del tema che anche studiosi di altre discipline giungano a considerazioni analoghe. Dice infatti uno storico dell’arte, Denys Haines:

” Lo spazio condiviso è condizione necessaria per la differenziazione dell’individuo, solo vedendo le persone insieme, possiamo confrontarle e riconoscere quanto di insolito e di unico è in ognuno di loro. Con lo spazio condiviso sviluppiamo la capacità di avere una prospettiva su un comune oggetto di percezione. In un mondo condiviso, l’individuo scopre la propria identità, la propria differenza dagli altri; contemporaneamente sottopone quel mondo ad un punto di vista individuale; lo presenta come visto da una particolare persona in un punto particolare dello spazio e del tempo.”

Questo discorso introduce anche un altro aspetto: il dilemma tra contestualizzazione e non-contestualizzazione, cioè il chiedersi quanto possa essere arbitrario, ma fruttuoso e quanto invece possa distorcere la realtà e quindi inficiare un progetto terapeutico il considerare l’individuo storicamente inserito nel tessuto sociale o meno. In ambito psicoterapeutico il dibattito è certamente presente e ha trovato voci che sottolineano alternativamente necessità e rischi dell’assunzione di una posizione o dell’altra.

Per quanto attiene specificamente la psicoanalisi, due voci -che mi paiono emblematiche di posizioni opposte- suggeriscono una volta di più che l’arricchimento creativo della cultura è dato anche dalla possibilità di immaginare nuove articolazioni di pensiero che contengano e armonizzino in un’unità che le comprenda entrambe, idee antitetiche. Sentiamo cosa dicono il filosofo del linguaggio Michael Bakhtin e lo psicoanalista Masud Khan.

Bakhtin contesta duramente alla psicoanalisi di aver salvato l’uomo borghese mettendolo fuori dalla storia e spiegandolo a lui stesso non come un’entità sociale concreta, ma come un organismo biologico astratto. Accusa cioè la psicoanalisi di aver omesso il sociale. Per quanto le sue conoscenze della psicoanalisi non comprendessero gli ultimi sviluppi (esplorazione del controtransfert, del setting, delle relazioni oggettuali) il monito a non separare in modo drastico e irreversibile figura e sfondo ha certamente una sua pregnanza. Ma è senza dubbio vero anche ciò che viene sottolineato da Masud Khan:

“Verso l’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo, quando Freud arrivò sulla scena psichiatrica, trovò che il paziente psichiatrico o era trattato come un bizzarro feticcio sociale o era sopportato come un guaio familiare. Quando isolò questo potenziale paziente entro una cornice terapeutica, ad emergere fu una situazione terapeutica unica nella storia dell’esperienza umana”.

Forse può essere utile alle nostre riflessioni cercare di sintetizzare brevemente l’approccio di Bakhtin: ognuno di noi ha una posizione unica nel tempo e nello spazio. Nessun altro può vedere ciò che ognuno di noi vede. Tutti condividiamo l’unicità, ognuno di noi dal proprio punto di vista; abbiamo bisogno dell’altro per completare noi stessi, per darci ciò che non possiamo vedere, e possiamo dare all’altro la visione di cui ha bisogno per completare se stesso.

Il sé quindi non è mai completo, siamo progetti non finiti; è solo nella relazione io-altro che ciascuno può ottenere se stesso. A proposito di visioni mono o binoculari mi pare che un breve racconto Sufi possa, con il suo potenziale metaforico, essere più evocativo di tante parole.

‘C’era una volta un paese in cui non avevano mai visto un elefante.
Il re dell’India, per i suoi interessi politici, volendo stipulare un’alleanza con il re di quel paese, gli mandò in dono un elefante che arrivò di notte e fu subito alloggiato in un padiglione nel giardino dell’ambasciata.

La curiosità della gente era grande, e per vedere come era fatto un elefante, quattro dei più coraggiosi decisero di introdursi di soppiatto nel padiglione approfittando del buio e della notte. Anzi per non farsi scoprire, non portarono con sé neanche una lanterna, limitandosi a toccare l’animale, palpandolo ben bene e scappando poi di gran volata per tornare dagli amici che li aspettavano impazienti.

“Ecco come è fatto un elefante-disse il primo che aveva toccato una zampa- è come una colonna tutta tonda”. Ma il secondo, che aveva toccato la proboscide, replicò: “Niente affatto, è come una grossa corda, molto grossa e molto lunga”:

Il terzo, che aveva toccato ben bene un orecchio dell’elefante, assicurò invece che l’animale aveva l’aspetto di un grande ventaglio; e il quarto che aveva ispezionato la coda, affermò che dopotutto l’elefante assomiglia proprio al codino di un maiale, ma molto più alto e ruvido ‘
E’ evidente che il racconto suona come un invito a valorizzare il confronto fra vertici differenti per raggiungere una conoscenza di ciò che una sola persona, un sola teoria, una sola disciplina non sono in grado di cogliere.

Ma coltivare e mantenere una visione binoculare della realtà non è compito facile.

La capacità di ascoltare apertamente e attentamente la prospettiva dell’altro scompare in situazioni sentite come minacciose: quando si sente il pericolo di un giudizio denigratorio, di un rifiuto, di essere esposti ad una situazione in cui provare vergogna, quando, più di ogni altra cosa, si corre il rischio di essere “oggettivati”, di non stare in relazione, allora ecco che, di fronte a squassanti angosce di inesistenza, forte è la possibilità che il bisogno di definizione si organizzi secondo le ben note dinamiche dominatore-dominato: dice ancora Bakhtin

“ogni gruppo culturalmente predominante cerca di legittimare il proprio dialetto come il linguaggio, mentre esso è in realtà solo uno dei tanti dialetti, anche se gode del maggior prestigio sociale: questo trasforma gli altri dialetti in forme implicite di opposizione culturale “

Sul filo di questo pensiero possiamo essere condotti ad un’altra riflessione. Nell’affermare le proprie ragioni ci imbattiamo continuamente nella pretesa di scientificità delle nostre teorie e nell’accusa invece di muoverci sull’onda di una ragione ideologica. Cosa intendiamo con questi termini?

Fornari ci dice:

“Vorrei definire la ragione scientifica come la ragione valida per tutti cioè olistica, per cui il vero e il falso si fondano su operazioni estensibili e condivisibili consensualmente a tutti gli uomini. In questo senso la ragione scientifica è antiautoritaria. Per ragione ideologica intendo invece la ragione privata per la quale il vero e il falso si fondano sull’appartenenza e sull’affiliazione ad un determinato gruppo. La verità religiosa, la verità militare o la verità familiare sono ideologiche …Anche la verità nazionale o quella etnica possono essere considerate un’estensione della verità familiare… Le istituzioni specificamente ideologiche hanno funzioni centrate esclusivamente sull’appartenenza“.

Le verità ideologiche non possono essere provate se non attraverso l’appartenenza e la dominazione, dominazione dell’amore o dominazione distruttiva che sia, comunque intollerante verso la verità dell’altro. Il criterio della propria verità diventa, per la verità ideologica, la negazione della verità dell’altro.

Sul terreno dell’ideologia si apre la strada al pregiudizio.

Il pregiudizio in quanto giudizio prematuro e affrettato è sempre il risultato di un’emotività non adeguatamente correlata con elementi riflessivi e coinvolge tanto le credenze quanto le valutazioni. Si può quindi strutturare diffidenza, antipatia, un pregiudizio appunto, nei confronti dell’altro, portatore di una diversa verità che interferisce con la nostra, sia appoggiandosi ad una credenza che, nel falsificare arbitrariamente i dati di realtà, renda plausibile l’atteggiamento di sospettosa presa di distanza, sia agendo sulla valutazione.

Si può cioè negare all’altro una buona qualità che possiede, oppure attribuirgliene una cattiva che non possiede.

Ma, come sappiamo, la grande maggioranza delle antipatie derivanti da pregiudizi si basano su dinamiche proiettive: in noi ci sono molti risvolti e quando uno o più di questi non riescono a convivere con gli altri, abbiamo la tendenza a scinderli e a proiettarli negli altri. Il tentativo è quello di liberarci di sgradevoli e imbarazzanti sentimenti di colpa o di vergogna.

Quindi l’inversione di una valutazione per invidia, la negazione, sempre per invidia, di qualità che altri hanno, la proiezione su altri di qualità inconsciamente possedute da noi, sono tutti meccanismi di difesa che certamente hanno un ruolo nella costruzione del pregiudizio.

Entrano comunque in gioco anche altre modalità difensive che hanno la funzione di conservare i pregiudizi dopo che si sono formati. Ci troviamo molto spesso a confrontarci con una riluttanza pervasiva, una sorta di incapacità a riesaminare un qualsiasi sistema di credenze a cui ci siamo affidati. Come mai? Come può accadere che si sia portati ad ignorare nuovi elementi, nuove evidenze che potrebbero consentirci una valutazione più realistica e adeguata di quella su cui ci basiamo?

Se al sistema delle nostre valutazioni, alla nostra bussola che ci orienta nel presente, ma affonda le radici della sua costruzione agli esordi della vita, nel faticoso lavoro di classificazione in buono e cattivo della realtà interna ed esterna, viene richiesta una massiccia revisione che ci fa temere una destabilizzazione intollerabile, allora possiamo aspettarci una scelta resistenziale: preferiamo ignorare i nuovi dati per non vivere la fatica e il dramma interiore conseguente ad un’ampia revisione. Permettere infatti ad un sistema consolidato di modificarsi significa accettare una penosa mancanza di certezze, attraversare un periodo di “disorientamento intellettuale” che ci mette in contatto con le drammatiche angosce confusionali della nostra prima infanzia.

Molto spesso non siamo disposti a correre questi rischi, siamo troppo spaventati e allora il pregiudizio dogmatico come lo definisce Money-Kyrle, sembra utile a proteggerci adeguatamente dalla confusione e dall’incertezza.

Ci troviamo quindi a poter riconoscere funzioni patologiche della certezza che certamente non erano sfuggite a Freud che ne L’Avvenire di un illusione dice:

“Una ricerca che proceda indisturbata come un monologo non è del tutto esente da pericoli. Si cede troppo facilmente alla tentazione di scartare, accantonandoli, pensieri che intendono interromperla e si genera in cambio un senso di insicurezza che alla fine si vuole superare con una risolutezza eccessiva.”

Il dubbio, l’incertezza, le domande, in questo clima, equivalgono alla debolezza e devono essere espulse a salvaguardia della certezza ideologica. La mente cessa di essere complessa,viene svuotata di qualsiasi opposizione, raggiunge una semplicità tenuta assieme da legami ai segni dell’ideologia (slogan, icone concrete – le bandiere- massime ideologiche, giuramenti..) che vanno a riempire il vuoto che era occupato dalla polisemia dell’ordine simbolico. Si perde la libertà di un moto multiforme di idee perché l’ideologia ha congelato l’ordine simbolico, spazzato via la possibilità dell’inconscio di rappresentarsi. Le parole non sono altro più che segni di posizioni nella struttura ideologica.

La pericolosità di atteggiamenti fortemente ideologici mi pare rilevante anche su di un piano etico, di responsabilità per il compito di cura che, come terapeuti, ci siamo assunti nei confronti dei nostri pazienti. Come ci ricorda Betty Joseph il fine dell’analisi è di rendere più sicuro quel oggetto interno che esercita una comprensione, che ci permette di sentirci vivi, di “essere” in una comunicazione verticale con noi stessi e orizzontale con gli altri. Qual è allora il nostro compito di terapeuti? Con gratitudine vorrei ringraziare Winnicott per averci detto che verso la fine della sua vita ha realizzato che il suo compito di analista non era tanto di fare interpretazioni intelligenti ed appropriate quanto di restituire al paziente ciò che egli nel tempo gli aveva offerto. Questo mi pare un atteggiamento di rispetto e di mutualità, che riconosce l’importanza della creazione e del mantenimento di un’area intermedia dove possano liberamente circolare e formarsi emozioni idee e capacità ludiche, dove cioè la creatività della persona possa esprimersi coraggiosamente e dove il nostro impegno etico ci renda attenti a non esercitare sui nostri pazienti pressioni inconsce per spingerli ad adattarsi, a compiacere i nostri desideri e i nostri bisogni.

Ma i terapeuti si trovano ad affrontare difficili alchimie a costruire equilibri complessi, stretti fra l’esperienza clinica che con l’intensità emotiva delle sue relazioni può costituire una pericolosa forza centrifuga e la necessità di mantenere un senso di equilibrio nella relazione con il paziente e una possibilità di scambio comunicativo fra colleghi. Si configura così la formazione di Scuole, sottogruppi che possono facilitare la differenziazione e stimolare il dialogo, ma comportano anche il pericolo di sviluppare una pseudo-identità analitica, trattandosi di aderire ad una scuola particolare. Le scuole possono diventare sempre più rigide, intolleranti: attribuiranno qualità negative alle altre fazioni, e identificheranno erroneamente gli altri come inadeguati o mal guidati. Alle teorie degli altri, così, non è garantito lo status di alternativa ragionevole alle proprie.

L’intolleranza dei punti di vista diversi attiva una sorta di “difesa sociale istituzionalizzata” perché le innovazioni suscitano angosce primitive, minacciano legami consolidati e la certezza che viene messa in dubbio, come abbiamo già visto, apre la strada al dogmatismo ideologico. In questa situazione le teorie, come i lampioni, rischiano di essere utilizzate non per illuminare, ma per appoggiarvisi.

Come ultimo spunto un aforisma di cui non ricordo la paternità: ” Se fai credere alle persone che stanno pensando, ti ameranno. Se le fai pensare sul serio, allora ti odieranno”.

Relazione per il Convegno Cura o manipolazione. Il potere della comunicazione tra tecnica ed etica,Genova, Museo S. Agostino, sabato 6 ottobre 2001 ( n.d.r. )